Un maestoso ricordo del Cinema Maestoso

Luca Barbaglia dei Scatola Nera ci raccontano la storia del Cinema Maestoso di Milano: un luogo che ora non è niente di più di una “facciata appesa” ma che è stato la casa di incredibili concerti e di serate di euforia collettiva.

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di LUCA BARBAGLIA – Scatola Nera

Qualche settimana fa, mentre giravamo il video di “Terra senza Pioggia” e vagolavamo con un astronauta per le strade di Milano, siamo passati in piazzale Lodi, nella zona in cui sono cresciuto e in cui ho vissuto gran parte della mia vita. Sulla facciata di quello che fu il Cinema Maestoso c’era un manifesto enorme che pubblicizzava un non so cosa dei Coma Cose, forse un tour, forse un disco, non me lo ricordo e non è rilevante. La facciata era una “facciata appesa”, come si usa dire in questi casi: un muro verticale, svuotato della sua struttura, con qualche finestra aperta sul nulla, su un cielo odiosamente azzurro. Dal passo carrabile si vedeva che, esclusa la facciata, l’intero cinema era stato abbattuto. Tondini ritorti, una voragine di terra inframezzata da qualche pezzo di cemento, macerie, polvere, ruspe e nient’altro. Mi è capitato di vedere qualche “facciata appesa” in giro per l’Europa: a Düsseldorf ricordo il lungo Reno come un’immensa scenografia di palazzi bombardati, un cartonato dietro al quale si nascondevano gli edifici ricostruiti negli anni ’50 e ’60; il castello di Bratislava, al quale è stata incollata una facciata senza far caso alla corrispondenza delle finestre; i muri del sestiere di Dorsoduro a Venezia, che coprono con un intonaco settecentesco le palazzine moderniste, squadrate e funzionaliste. Tutto questo per dire che in quel cinema ci avevamo suonato, ormai molto tempo fa

Avevamo un altro nome, facevamo un’altra musica ed eravamo delle altre persone. Suonavamo anche con altre persone – Giacomo Sommella al piano e Paolo Bareggi al basso. Avevamo un disco in uscita e ci aveva contattati il collettivo Re-Make, che da qualche giorno aveva occupato il cinema, che era in disuso da anni: ci avrebbero dato l’intero cinema a disposizione, un proiettore e tutta la “cassa”. Noi avremmo dovuto portare le luci, la strumentazione, l’impianto, un fonico e noi stessi. Accettammo, perché a vent’anni si ha ancora voglia di darsi da fare sul serio. Avevamo un roadie professionista, poco credibile ma molto bravo, rispondeva al nome di Pallina: insieme a lui passammo una giornata afosa di giugno ad organizzare il concerto e a montare il palco: avremmo suonato il nostro disco durante la proiezione di Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio tentando di adattare la scaletta al crescendo del film. Già all’epoca la cosa ci pareva un po’ scostante e forse un po’ intellettuale, ma avendo un cinema a disposizione faticammo a trattenerci. Appena dopo la fine del soundcheck cominciò a diluviare e lì perdemmo le speranze: la gente non sarebbe arrivata, le centinaia di poltrone di velluto rosso sarebbero rimaste vuote e noi non saremmo rientrati delle spese. Poi il miracolo. La gente arrivò, fradicia e incazzata, riempì tutto il cinema e noi iniziammo. La risposta del pubblico fu senza precedenti: vendemmo tutte le copie dell’album e le offerte libere strariparono come durante la questua in una chiesa del centro. Dopo il concerto, nonostante non ci fosse un bar, la gente iniziò a ballare, anche con noi. Il nostro tastierista dell’epoca ballò per più di un’ora con un sudamericano che alla fine gli mollò 50 euro di offerta libera. Eravamo tutti in una dimensione strana di ebbrezza collettiva, protratta dal temporale che non demordeva. Repubblica dedicò un articolo alla serata, definendoci un progetto “fusion” – siamo ancora qui a chiederci il perché.

Il giorno dopo ci siamo presentati quasi in after agli studi di Radio Popolare. Non so chi fosse l’intervistatore: era il classico quarantenne in calzoncini che voleva fare la partaccia del giovanissimo: affettato, spigliato, polemico e aggiornatissimo. Continuava a blaterare sullo Stato Sociale, dio solo sa il perché. Ci chiese quale fosse il nostro background, con un tono tra l’amichevole e l’infastidito. Il nostro tastierista gli rispose “l’amore”. L’intervistatore lo incalzò un po’ imbarazzato, chiedendogli quale fosse la nostra preparazione musicale. La replica fu “la nostra preparazione è l’amore, io suono con l’amore”. La su risposta divenne un meme, e girò per un certo periodo. Fatto sta che non siamo più tornati a Radio Popolare. L’ultimo ricordo è l’altra intervistatrice che spiaccicava la sua cicca masticata accanto alla mia mano, mentre era ancora in diretta: era bellissima, ma mi venne un conato di vomito. La settimana successiva avremmo dovuto replicare la serata, ma il cinema occupato fu sgomberato. Sono passati otto anni e non ho voluto sapere che cosa ne faranno.

C’è una morale nella storia? No, ovviamente. L’unica cosa che riesco a pensare è che Scatola Nera resta tra quei tondini piegati e quelle macerie. La facciata la lasciamo ai cartelloni.