Altre di B, Iceland Airwaves

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Le civiltà dipendono dalla luce.

Lo capisco per la prima volta quando ciondolo per le strade di Copenaghen, nel febbraio di un anno particolarmente rigido, con la gente che cammina sul lato della strada dove batte il Sole bianco del nord: e stringe un po’ gli occhi e si rifocilla di quella bianca felicità. Ne parlo con Andrea davanti alla cartina geografica dell’Islanda, all’ingresso dell’aeroporto di Keflavik mentre siamo in fila per un caffè e mentre mi spiega le regole dell’import-export di un Paese piccolissimo e scaraventato in mezzo all’oceano settentrionale, con le stesse esigenze di un Paese grandissimo e adiacente ai suoi simili.

È stupefacente che ci sia vita in un luogo tanto sfavorevole alla vita stessa, fra le erbe infinite che amano circondarsi di ghiaccio e salsedine, ai bordi della roccia nera e dei vapori della Terra che li digerisce. Un luogo percorso da una sola via di comunicazione circolare, che per un latino come me avvezzo alla rigidità della centuriazione è quantomeno pauroso. Ne parlo con Andrea sul pullman che ci porta a suonare nella capitale, il nostro piccolo sasso di roccia nera che resterà anche dopo di noi e dopo i nostri figli.

Le civiltà dipendono dalla luce.
Lo capisco alla vista dell’aurora boreale, passeggiando per Reykjavik nel cuore della notte.
Col taxi che inchioda in mezzo alla strada per scattare una fotografia.

Che, come l’umanità, anche lei dipende dalla luce.

Buona