Quella cantina buia dove noi

Giacomo Opocher racconta la storia dell'Atlas Studio: una storia comune a tante, al limite tra amicizia e musica, tra Peroni vuote e microfoni accesi, tra storie su Instagram e testi scritti sulle le note del cellulare. Al limite tra fratellanza e scena underground.

Ci metti 4 minuti

di Giacomo Opocher

La cultura nasce nei luoghi, c’è poco da fare. Ogni storia che parla di come si è sviluppato un determinato movimento/collettivo/etichetta/gruppo deve essere ambientata in un luogo preciso dove questa realtà ha messo le radici. Magari non è chiaro fin da subito, magari è l’ultimo posto in cui ti immagineresti che nasca qualcosa, eppure quel luogo è lì, elemento imprescindibile della cultura che nasce. Può essere una città, una piazza, un parco, una panchina, una strada, un locale e chi più ne ha più ne metta. Nel nostro caso è stato un garage. Ad essere sincero, non ricordo più la prima volta che sono entrato in quel garage, ma più o meno è andata così.

Avevo un paio di pezzi scritti chitarra e voce che avevo scartato dalla scaletta del mio ultimo disco e non sapevo bene che farne. A quei tempi, si parla di fine 2017, Nicola (Critical Zarr) aveva iniziato a rappare e Carlo (No Label) si era convertito alla produzione digitale attaccando a malincuore al chiodo il sogno di sfondare con una rock band. Io, un po’ incuriosito, un po’ spinto dalle nuove uscite di Dutch Nazari, Coma Cose, Frah Quintale, Calcutta e compagnia bella, ho chiesto a Carlo di produrre assieme qualche pezzo. Ed eccoci lì. Nel garage di casa di sua nonna. 10 mq, niente finestre, l’aveva arredato con l’essenziale: un tavolo, qualche sedia, la batteria di Nicola che da tre anni deve passare a riprendere, una lampada dell’Ikea e poco altro. In uscita diretta dalle nostre mani alle nostre orecchie musica sotterranea di nome e di fatto. In quel momento, la scintilla. Quella che senti nell’aria e capisci che qualcosa di speciale sta nascendo.

C’è voluto poco affinché lo studio si popolasse. Da quei tempi all’Atlas, abbiamo reccato io (Inside Emerica), Nico (Critical Zarr), Gere (prima Stran/Ger e ora Ventuno), Cece (Kaesar), Seba (PUGGIONI), Luca (Yanez), Divo (Joaquim Merdavic), Edo (Trobar) e vari altri. Non conoscete nessuno di questi artisti? Non mi sorprende. Nessuno di noi è mai stato in studio con l’imperativo categorico di sfondare. Era quell’aria magica di complicità, di fare le cose fatte male, di urlare, di stonare alla grande, di dire le cose peggiori e sfogare quelle parti di sé che spesso si tende a soffocare. Sentirsi diversi dagli altri, ma uguali a noi stessi. Un’attitudine decisamente punk rivestita di modernità digitale e cultura hiphop. Sarebbe bello raccontare una storia di successo, di dischi d’oro e palazzetti pieni. Non è il nostro caso. Magari il futuro di qualcuno di noi, chi lo sa.

Credo sia una storia comune a tanti questa, al limite tra amicizia e musica, tra Peroni vuote e microfoni accesi, tra storie su Instagram e testi scritti sulle le note del cellulare, tra ore piccole e tracce chiuse. Al limite tra fratellanza e scena underground, che poi alla fine sono la stessa cosa, no?